Si chiama Mudec, Museo delle Culture, ed è il nuovo centro espositivo dedicato all’Intercultura del Comune di Milano.
Nasce da un’opera di recupero di archeologia industriale nell’area dell’ex fabbrica Ansaldo, in zona Tortona ed ha tutto l’interesse a costruire un luogo multidisciplinare che rifletta le diverse culture del mondo, ponendole a confronto attraverso testimonianze di vari climi intellettuali ed etnografici.
Concepito come luogo d’incontro per le comunità e le culture, il museo ha aperto i battenti proprio in occasione dell’Esposizione Universale e lo scorso 27 marzo ha inaugurato la mostra dal titolo Africa. La terra degli spiriti, curata da Ezio Bassani, Lorenz Homberger, Gigi Pezzoli e Claudia Zevi.
L’esposizione analizza la storia dell’arte africana sotto il profilo paradigmatico, estetico ed esoterico, dando valore ad un’arte che si diffonde in Europa già dal Medioevo, per via di guerre, colonizzazioni e contatti pacifici che ne consentono le influenze.
Con circa 270 pezzi, Africa definisce gli incontri dei talenti artistici delle popolazioni africane con l’Europa, evidenziando la sorprendente ricercatezza dei manufatti e rammentando le tristi sorti di una cultura sottratta allo spirito dei luoghi e che, lungo i secoli, trova dimora nell’Occidente europeo e, in alcuni casi, nelle esibizioni delle Camere delle Meraviglie imperiali.
Essa mette in luce il cambiamento che ha subito l’arte occidentale europea, in seguito al suo incrocio con un tipo di figurazione spirituale, lasciandone trasparire i debiti nei confronti della cultura africana.
Difatti, lungo l’esposizione si scoprono le dinamiche evolutive del linguaggio dell’arte europea, evidenziando nell’art nègre il perno su cui ruotano le avanguardie storiche.
Nei capolavori esposti, si ritrovano le forme di quell’unità plastica che aveva sconvolto Pablo Picasso al Museo Etnografico del Trocadéro di Parigi e che consentiranno la sua evoluzione pittorica dal dipinto Les demoiselles d’Avignon nel 1907, a La Capra, scultura degli anni Cinquanta, fino al suo ultimo autoritratto che nell’immediatezza del segno rievoca alla mente una peculiarità tutta africana, di superamento del concetto d’identificazione del soggetto per mezzo della rappresentazione dell’opera d’arte, in virtù di una conseguenza dell’essere.
C’è anche l’estrema semplicità dei segni plastici di Henri Matisse, nonché la ricerca di un’intuizione visiva e di un’immediatezza dei sentimenti che accomunerà le scelte stilistiche degli espressionisti dei primi del Novecento. E se la linearità delle sculture di Henry Moore trarrà ispirazione, la fase surrealista di Alberto Giacometti sarà imprescindibile da quest’arte: la sua ricerca formale è riconoscibile, per esempio, in un Cucchiaio della Costa d’Avorio (visibile in mostra), che ci rimanda alla Femme Cuillère del 1926-27. E anche se le ispirazioni giacomettiane prenderanno una strada inedita e autentica, oltre il Surrealismo, le sue sculture dal vero risentiranno sempre di quelle influenze, poiché egli ricercherà nella figura umana, nella testa e nello sguardo quel trasporto emotivo che si estranea dal concetto di rappresentazione, per divenire archetipo.
Lungo le sei sale è possibile ricostruire sia esplicitamente che in chiave implicita, questo processo d’influssi, e in ognuna di queste si raccontano le tradizioni, la ricchezza, la magia, la divinazione e la morte, fino al potere del rito, delle maschere e dell’attrazione delle danze.
La sconcertante essenzialità diventa la qualità distintiva dell’oggetto in sé, portando il fruitore a considerarlo come un medium del sapere che va oltre la parola scritta, per analizzare la prima necessità di un’arte che elude la forma. I messaggi simbolici nei profili degli antenati superano il concetto di creazione estetica per ispirare spiritualità e ed energia vitale, mantenendo vivo il rapporto tra il visibile e l’invisibile, il concreto e l’incorporeo.
Figure magico-religiose dai materiali più disparati; mazze finemente intagliate, asce da cerimonia nei loro foderi lussuosamente ornati ed altre armi (spade, coltelli, falcetti), per comprendere il primato di una manipolazione esploratrice che identifica nell’Africa subsahariana, la terra pioniera per la fabbricazione e la lavorazione dei metalli. Nello specifico, la manifattura metallica che ha un ruolo culturale predominante, è investita di una valenza simbolica la cui forgia, fatta di riti purificatori, diventa simbolo di regalità ma anche di potere; la sua fusione è associata al parto e il fabbro diventa il demiurgo dai poteri magici che plasma armi, utensili e,
soprattutto, immagini di divinità.
Tra i tanti manufatti presenti, emerge sicuramente nel suo splendore l’olifante d’avorio con lo stemma della famiglia Medici, così come le sculture in pietra della Sierra Leone, della Guinea e della Liberia, oppure le ricchezze degli avori afro-portoghesi, per citarne alcuni.
Storie di Regni, di Corti, ma anche di riti, culti della fecondità, religioni, etnie, culture musicali, proverbi, in una mostra che, nella sua complessità, racchiude il senso di un’arte dal passato ancestrale, nobile, eroico, universale.