Come scrive Jean Soldini nel suo saggio “La somiglianza introvabile” pubblicato agli inizi degli anni Novanta, l’ennesimo studio su Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 1901 – Coira, 1966) rischia di mostrarsi immotivato, data la moltitudine di pubblicazioni che lo riguardano, nonché per via della sua notorietà.
Eppure, lo storico dell’arte spiega che, nonostante l’argomento sembrerebbe chiuso a qualsiasi analisi di tipo inedito – sia in una chiave d’insieme che su alcuni dettagli della sua produzione – si avverte la necessità di indirizzarsi verso la ricerca dell’artista svizzero, tenendo sì conto dell’approccio fenomenologico della realtà e dei medesimi intenti espressi vent’anni prima dalla monografia di Reinhold Hohl, ma con l’auspicio di cercare (e rivelare) nella totalità della realtà e nella figura della madre, le premesse per un riesame dell’opera dell’autore, con riflessioni sull’estetica del suo linguaggio a proposito della realtà artistica contemporanea.
Era, dunque, il 1991 e Jean Soldini rifletteva su una felice moltitudine di possibilità per definire la natura e le caratteristiche di un tipo di visione della realtà che tutt’oggi ci risulta impenetrabile.
E, ad oggi, dopo ulteriori vent’anni, la figura dell’artista continua a suscitare studi, confronti, rapporti attraverso analisi, esposizioni e pubblicazioni, poiché si considera quanto mai necessario sviluppare connessioni o attinenze col passato, per non parlare delle pertinenze tra la sua opera e la quotidianità del nostro tempo.
Solo in questo anno che volge al termine, il nostro Paese ha visto inaugurare differenti esposizioni che analizzano il lavoro di Alberto Giacometti con una pluralità di linguaggi che, se a volte ci appare di natura antologica, altre volte ci propone incontri inesplorati o relativi, per esempio, al fascino che la statuaria antica esercitò sull’artista.
A tal proposito, il nostro interesse è rivolto verso due mostre differenti che in questo periodo si stanno svolgendo rispettivamente alla GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano e al MAN Museo d’Arte della Provincia di Nuoro. Due mostre distanti sotto il profilo geografico, e alternative sotto quello culturale per l’offerta museale delle due Istituzioni.
Alla GAM di Milano, fino al primo febbraio del 2015, sarà visitabile la mostra dal titolo “Alberto Giacometti”, curata da Catherine Grenier, direttrice della Fondation Alberto et Annette Giacometti. Qui una selezione accurata di sessantatré lavori provenienti proprio dalla Fondazione, ripercorre l’evoluzione della ricerca dell’artista, dai primi tentativi in Svizzera, negli anni Venti, fino alla sua età matura, tra Borgonovo di Stampa e lo studio parigino al civico 46 di rue Hippolyte-Maindron. Una sequenza temporale divisa per sezioni (cinque, per l’esattezza), nelle quali scorgere il fascino della figura attraverso bronzi, gessi, marmi, disegni e dipinti e avvicinarsi alla quotidianità della sua opera e ai suoi spazi più intimi attraverso le foto di Brassaï.
Lo spazio espositivo della GAM apre il suo ciclo di mostre dedicate alle arti plastiche con un artista che sin dall’inizio indaga la figura umana, la testa, lo sguardo, con un occhio all’antico, e con il medesimo intento che lo accompagnerà per tutta la vita e che lo
spinge, a soli 13 anni, a scolpire la prima Testa di Diego. E, a proposito di questo primissimo tentativo, in una conversazione con André Parinaud, Giacometti diceva:
[…] possiedo ancora quel piccolo busto. Cinquant’anni dopo non ci sono ancora riuscito! È curioso confessarle che da due giorni cerco di fare ancora quella testa, come nel 1914.
Tornando alla mostra alla GAM, la testa è uno dei suoi elementi cardine, come si evince dalla prima sala nella quale vi sono i ritratti dei membri della sua famiglia: il padre Giovanni, pittore impressionista; il fratello Diego, artista anche lui; ma anche Annette, sua moglie. E poi la figura umana e il ritratto con il modello che abbandonerà nella fase Surrealista per lavorare a memoria. Proprio nelle sale successive, l’incrocio con le Avanguardie Novecentesche è evidente e chiarisce la coincidenza della sua evoluzione artistica con il suo trasferimento a Parigi. Sono gli anni Venti e Alberto subisce il fascino della geometria del Cubismo e la stilizzazione delle forme del Surrealismo fino ad arrivare ad una simbologia che spingerà André Breton a considerare Boule Suspendue come l’opera simbolo della sua Avanguardia. Leggi tutto…