La scoperta attraverso gli occhi di un artista. L’esplorazione silente di mondi
concretamente lontani e così autentici, nella loro spiritualità. Il Giappone, il Marocco, la Turchia, la Siria, l’Iran e più genericamente l’Africa, la Russia, l’Oriente.
Si chiama Matisse. Arabesque e apre la stagione primaverile romana delle mostre alle Scuderie del Quirinale. Dal 5 marzo al 21 giugno un’esposizione di 90 pezzi del maestro francese scelti nell’arco di tempo di una vita, illustrano e tentano di definire le origini più intime fino alle evoluzioni più ultime di un percorso artistico multiforme la cui genesi non è propriamente definibile, piuttosto rintracciabile in un ritmo di avvenimenti susseguitisi lungo la sua esistenza.
La mostra, curata da Ester Coen insieme al comitato scientifico composto da John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen, racconta una storia di influenze che si succedono dapprima per caso e poi per quel desiderio di conoscenza che lo condurrà ad una pittura straordinariamente contemporanea.
La vita di Henri Matisse (1869-1954), infatti, sembra scritta sulla linea di un destino segnato in quella direzione: la tradizione tessile famigliare, gli influssi esotici all’École des Beaux Arts, l’Esposizione Universale di Parigi, le visite al Louvre e al museo etnografico del Trocadéro, i viaggi sempre più frequenti verso l’Oriente, gli incontri più disparati, come quello casuale con la scultura africana che avvenne a Parigi, mentre andava a casa di Gertrude Stein: lì, passando per un negozietto d’antiquariato vide una piccola testa africana che lo portò a riflettere sulla dimensione universale di quel profilo e sulla similitudine con la cultura egizia, nonostante le due civiltà fossero l’una estranea all’altra.
L’esposizione è un racconto dialogico ben pianificato che pone a confronto pezzi di varie epoche con la ricerca dell’artista: ceramiche, stoffe, maschere, stampe e manufatti provenienti da molti prestigiosi musei americani, europei e russi che si confrontano e comprovano le rispondenze di quelle culture con il fascino evocativo delle opere dell’artista.
Tra le sale, colpisce la seconda, dove tessuti malesi, maschere ivoriane, pagne congolesi rispondono, tra gli altri, alle suggestioni di Nudo disteso, tessuto di rafia africano del 1935, o Ritratto di Yvonne Landsberg del 1914; oppure la quinta sala, dove le illustrazioni dei paesaggisti giapponesi Kanu Tzunenobu e Utagawa Hiroshige replicano alla sottile assonanza di linee e forme dei Quattro studi per il poema di Mallarmé L’Après-midi d’un faune del 1932 insieme allo Studio per l’Ulisse di Joyce: Itaca del 1940; o ancora, al secondo piano, i costumi del balletto Le Chant du rossignol del 1920, comparati con tessuti cinesi dell’epoca, cinture Obi giapponesi e una maschera (Wan-niaka Mossi) del XX secolo proveniente dal Burkina Faso.
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